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CRITICAL TEXTS

Flaminio Gualdoni

Nel Sogno, ossia vita di Luciano, lo scrittore antico fa dire alla Paideia, l’educazione elevata, che la pratica dello scultore è disdicevole perché egli non è che un cheirònax, uno che lavora con le mani, incapace di uscire dalla prigionia che la materia gli impone: e la materia vuole e può essere certe cose e non altre, mentre la padronanza della parola rende capaci di tutto, dal pensiero alla convinzione. 

Valerio Tedeschi è sin dai suoi inizi un cheirònax dentro, un artista cui è con ogni evidenza necessario il rapporto diretto, fisico con la materia, ma che a differenza di un artefice antico è nato nel nostro tempo e sa dunque che l’arte non può non essere anche embodiment del discorso d’arte, ragione ed esercizio critico rimuginato nel tempo lungo del processo fabrile, operazione a un tempo retorica e profondamente antiretorica di decostruzione e ricostruzione deviante. Inoltre è parimenti figlio di un’idea della scultura passata attraverso la faglia decisiva della fluenza formale di Bernini, del pittoricismo, dello spettacolo, della meraviglia contraddittoria della materia: che è il marmo di Foggini ma può anche essere lo stucco agevole di Serpotta, materia che sempre finge non solo altro ma anche, parimenti, se stessa.

Infine, la sua modernità ispida porta le stigmate della vicina lezione surreale, l’impronta dell’ironia e dello scacco di senso, del paradosso significativo, e un turgido umore contaminatorio che induce la materia formata a collidere con materie/cose impreviste – certo non più anticanoniche, ormai – ma criticamente vive, dalla piuma al filo da sutura.

Dunque, Tedeschi sceglie per sé il marmo: non un marmo, ma il marmo, il Carrara bianco che ai suoi e ai nostri occhi ha fissato nei propri cristalli la retorica stessa della scultura: e 

quando non è Carrara è l’aulico Candoglia, di cui l’artista ha respirato la polvere sin dalla nascita, oppure, per contrapposta ma non minore aristocrazia materiale, il noir Belge. Con il materiale egli ingaggia un’operazione insieme complice e antagonistica di decontaminazione storica e di reinvenzione straniante, che dice d’un oscuro organico possibile, di derive dimensionali, di forzature e scacchi dell’aspettativa di ricezione,  facendolo infine altro da se stesso.

Potrebbe, Tedeschi, sfruttare agevolmente gli istinti di teatralizzazione che trapelano qua e là dai suoi lavori, rendere meno introversa la conflagrazione tra ciò che presentano e la loro ostica – ancorché suadente – materialità: dagli antichi lombi barocchi ha ereditato anche l’intelligenza dell’effetto, la facoltà di far spettacolo della visione.

Preferisce, invece, la qualità scontrosa di queste metamorfosi, la sospensione del calembour al punto in cui non può ridursi a blague, la sottrazione d’una chiave pacificata di lettura. Il processo si arresta prima d’ogni prevedibile soluzione estetica, in uno stato di ambiguità elaborante, continuamente sottraendosi quando potrebbe ridondare: e proprio “Difetto d’effetto” titolava, giusto qualche anno fa, una sua mostra illuminante in questo stesso spazio. 

È questa la cifra più nitida di Tedeschi, la chiave dell’intero suo processo, ben distante dal “barocco contemporaneo” che Guy Scarpetta annunciava giusto trent’anni fa come corollario della postmodernità.  

Valerio Dehò 

LA VITA SEGRETA DELLE FORME

 

Attraverso i suoi lavori Valerio Tedeschi  rappresenta un mondo che è apparentemente immobile e senza forma. In effetti, riesce a costruire perfettamente uno spazio umano in cui la presenza antropologica lascia tracce non apparenti, ma fortissime. Luogo d’ architetture, di forme che non hanno evidenza definitiva, il lavoro di Tedeschi procede per similitudini, si sviluppa quasi organicamente come un progetto utopico di creare una scultura senza struttura e senza il parametro delle proporzioni umane.  La sua poetica dell’ In-finito richiede un attenzione particolare e un grande tempo di messa a punto delle opere soprattutto nella loro relazione tra forme e materia. Anche i riferimenti naturalistici come le nuvole appaiono lievi, nel gioco continuo della materia pesante come il marmo che si fa leggero, morbido e aereo. Non vi sono valori costruttivi da esaltare, geometrie da saldare tra di loro alla ricerca di una perfezione strutturale, ma tutto si tiene assieme per una necessità intima, per una volontà delle forme di aderire ad un progetto dolce ma anche pieno di sorprese e di seduzioni visive. 

La sua arte ha la giusta pretesa di rivelare  forme nascoste o possibili che sono appunto elementi che sembrano nascere dai materiali, dal caso, da qualcosa di spontaneo che può apparire distante  dall’uomo. Hanno l’organicità delle forme di vita spontanee. Però si tratta di forme che sono il risultato dell’esperienza artistica di secoli, prodotti della sensibilità dell’artista che cerca costantemente l’essenziale. Le forme, quindi, danno luogo a sculture in materiali diversi, con prevalenza del marmo da sempre preferito dall’artista, ma con contaminazioni provenienti dal mondo industriale come i siliconi.  come se fossero germinazioni spontanei o prodotti del caso e della dimenticanza. L’artista diventa un ricercatore, colui che scopre direttamente la forma nella materia, la sua abilità sta quasi nel riuscire a farsi da parte, lasciando al minimalismo, al gesto essenziale, la capacità di parlare dell’uomo e della sua infinita capacità di creare oggetti nuovi. 

I materiali compositi servono anche per sottolineare un aspetto abbastanza inedito nella scultura diciamo classica, che è quello dell’ironia. Elementi distonici e medicali “disturbano” l’immagine tradizionale della scultura stessa. La durezza del materiale contrasta anche con la sua suggerita organicità e/o malattia. Ma sono calembours, giochi, rimandi intellettuali ad uno stato dell’arte ad una salute generale che è sempre precaria. Probabilmente, definitivamente precaria.

Il resto è antinomia tra forma e non forma, tra suggestioni di immagini realistiche e le strutture nascoste di quello che sta nascendo. Tutto appare in fieri. Come un rito di passaggio tra uno stato e l’altro dell’arte contemporanea, come un passaggio tra epoche che non passa mai. Momento indefinito e dilatato nel tempo che Valerio Tedeschi sottolinea in un’ attesa di ciò che apparirà. Se si avrà la pazienza di aspettare.

 

Marisa  Vescovo

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELLA MATERIA

Cogliere il senso di un’ epoca , o meglio di un decennio-- misura temporale con cui oggi noi descriviamo il succedersi impetuoso degli eventi—non è semplice. Per farlo bisogna procedere per dettagli, particolari, frammenti, cercando di illuminare identità, ma anche opere e idee, che ci aiutino a restituire un significato, almeno plausibile, al nostro passato prossimo, senza doverne ripercorrere l’intera storia. L’arte contemporanea, in effetti, rispecchia profondamente l’irriconoscibilità e l’impersonalità della vita che conduciamo oggi nei suoi contenuti sociali e spirituali.

Al fine che l’opera possa svolgere la sua funzione è necessario, come dice Massimo Recalcati, che l’artista sospenda il suo rapporto col reale, inteso come qualcosa di già noto, visto, conosciuto. La sospensione non è più il risultato di un atteggiamento metodico del pensiero, piuttosto un incontro imprevisto, inatteso, una contingenza che colpisce, un urto che crea uno sballo della mente. La funzione paradossalmente pedagogica, e sociale, dell’opera d’arte diventa quella di condurre il fruitore “al di là dell’ultima porta”, quindi risvegliarsi dal sonno producendo il sogno, obbligandoci ad uno “choc” capace di rompere il legame con l’ordine stabilito. La giovane scultura , nel presente, vuol essere una porta dischiusa sul mistero del vuoto: incarna la poetica dell’oggetto, la quale annulla il carattere rappresentativo dell’opera e assimila indistintamente lo sfondo alla “figura”, e propone, talora con discrezione, forme e immagini di una mutazione plastica che la trasformano da medium normalmente statico, in medium temporale e materiale in mutazione.

Un autore come Valerio Tedeschi cerca di competere con i temi che vuole presentare, sia con il pensiero, sia con la possibilità di una  tensione positiva da vivere, provocando uno scuotimento, che si manifesta attraverso la capacità di creare continui scenari mentali, utilizzando citazioni e spazi di una fantasia ammobiliata con le immagini della propria poetica, la quale magari non disdegna di presentarsi in forme incongrue. L’ artista diventa dunque demiurgo, architetto che proietta il suo mondo interiore utilizzando le idee come modello e la materia come strumento, dando così vita ad un nuovo ordine. Il lavoro si fonda sulla capacità di far scaturire domande e far emergere paradossi d’esistenza. Tedeschi propende per l’uso di un materiale classico come il marmo ( il bianco indica l’assenza di colore, il suo grado zero:i fantasmi, le apparizioni, la morte, l’inquietudine ), a cui accosta materiali effimeri come cotone, filo chirurgico da sutura,  resine, piume, paraffina , cauciù, vetri, oggetti di cristallo come bicchieri , tazze e barattoli, palline da ping pong, evidenziando quindi una ricerca sui concetti di materiale/immateriale, sull’idea di leggerezza , sull’erotismo della superfice in mutazione.  Una ricerca in grado di equilibrare sottilmente realtà ed illusione, sollecitando tutti i nostri sensi. Si tratta di opere che ci spingono a dare ascolto a certe realtà, a farle “entrare” in noi, così da ossigenare un’interiorità altrimenti asfittica. Gli artisti oggi aspirano ad evocare, sublimandole, esperienze, condizioni fisiche e psicologiche. Per questo tipo di esperienze Duchamp aveva usato il termine “ultrasottile”, con cui voleva indicare i “fenomeni limite” della percezione, fenomeni di cui si fatica stabilire la materialità, fenomeni, che come indicano le opere di Tedeschi alludono alla dimensione del passaggio, della metamorfosi, del divenire delle cose, oppure ci obbligano a pensare che anche l’assenza sia fatta di materia.

Nel lavoro di Tedeschi compaiono nuove figure che stanno oggi tra la massima astrazione del concetto e la massima forza espressiva dell’immagine, e abitano i luoghi della memoria , dell’emozione e del sapere, dove si scontrano e si trasformano -- in questo spietato inizio di terzo millennio—in nuove forme, organiche e no, di un diverso orizzonte di senso. Tutto ci conduce un’estetica di un’apparizione progressiva delle figure del visibile, in una dimensione “altra” del mondo, nell’era della globalizzazione planetaria.

E’ curioso che ciò che caratterizza il nostro presente è soprattutto l’accelerazione della realtà, è l’impossibilità di scegliere i tempi del proprio percorso creativo, la molteplicità delle proposte irriducibili a dar vita a un movimento artistico, a una tendenza unica come nel passato, oppure a coagularsi insieme in un qualsiasi orizzonte poetico, critico, storico. Un artista come Valerio Tedeschi sente però il bisogno di conquistare, in solitudine, il proprio punto di vista, defilato rispetto ai creativi a 360°, per cercare una diversa e inquietante organizzazione delle idee rispetto alla povertà dell’attualità. In un’ epoca in cui la nostra visione del mondo è diventata più teleoggettiva che oggettiva, occorre opporre una grande resistenza alla repentina derealizzazione di un universo, in cui tutto è visto, già visto, e dimenticato.

Di fronte a questa nebulosità, in cui la violenza dello choc da immagine sembra l’unico mezzo di espressione, l’opera-manufatto, come quella di Tedeschi, emerge come un fenomeno di resistenza, infatti con la sua forte affermazione plastica davanti allo slittamento del terreno d’informazione, essa attiva un freno d’emergenza, senza il quale nessuna cultura può durare.

Pertanto è proprio in questi punti di intersezione, di ibridazione, di mescolanza, in queste zone di confine, che si producono forse le “le immagini di pensiero” e le forme più alte, più significative del sapere moderno, del sapere del destino dell’uomo nella nostra epoca.

Tedeschi assegna al materiale un primato che da  tempo aveva perduto—accusato di vieto “classicismo”, quindi di vuoto “formalismo”—trattato dai più in modo banale e mortificante, al contrario lo scultore adotta affettivamente ,e creativamente, questa materia antica, per manipolarla, fluidificarla, accarezzarla, risemantizzarla, sino ad ottenere un materiale “nuovo”, erotizzato e dinamico, capace di assumere nel suo incarnato le novità che oggi si muovono nel corpo mutante dell’arte, per ampliare spazi ambientali i quali includano insieme immagini, simboli, archetipi, cose quotidiane, e perché no emozioni. In questo caso pensiamo al paziente lavoro sul marmo che si plasma organicamente nei tempi lunghi e amorosi della mano, sino a renderlo leggero come una piuma—anzi una delle opere più affascinanti ( “Things that happen”, 2010  ) consiste in un parallelepipedo il cui angolo si alza verso l’alto a cercare l’idea del volo sorretto “insostenibilmente” da una piuma—un’idea che ci riporta ad un mondo costituito d’atomi senza peso che aleggiano nello spazio. Non potremmo ammirare la leggerezza illusiva di questo linguaggio, che ci restituisce spessore e concretezza dei corpi scultorei e delle sensazioni, se non sapessimo ammirare la mano virtuosa che mette in crisi la nozione di peso.

Ma forse è bene iniziare dalle prime opere create da Tedeschi al nascere di questo ultimo decennio: infatti ne troviamo una serie , eseguita tra il 2000 e il 2001, chiamata sempre “Paesaggio barocco”, in cui l’accento è posto sulla libertà di una fantasia che si permette di spezzare ogni vincolo di tradizione, e traduce pittoricamente un paesaggio che appare piuttosto una sezione irregolare dello spazio infinito, oppure tende  attraverso motivi di movimento della superficie a suggerire espansioni illimitate, un suolo lunare con crateri colmi di materia rosata, provocando anche effetti illusionistici. Sentiamo la luce trascorrere lieve sulle superfici movimentate dalle boffe, un soffio di vento che increspa il nitore della superficie che ci conduce verso una contemplazione  partecipe.

Tutte le opere che vengono dopo da : “Manna” (2004, le prime opere con questo tema risalgono ai primi anni ‘90), “Esuvia” (2005, altri esemplari sono degli anni ‘90), “Difetto di effetto”,2008, ”Difetto di effetto”, 2009,”Cose che succedono” 2010, (con fili di cauciù), “Things that happen”,2009 ( con filo chirurgico) “Tutto e niente” ,2010,

c.operte di fori, contratture, congiunzioni-disgiunzioni della materia ,boffe, movimenti di gonfiori mammellari ,la pelle della materia che si alza a cono trascinata verso l’alto da un filo di sutura medico, si oppongono all’idea di un’opera che sia rinvio trascendente ad un referente esterno. Il loro carattere assoluto si coglie pienamente interrompendo la linea immaginaria di una possibile significazione, e seguendo le traiettorie aleatorie dei rilievi. E’ il rilievo, in effetti, per Tedeschi, sta ad indicare il punto limite della superficie rappresentativa, attraversata dalla memoria dell’inconscio, dalle sedimentazioni e dai ritorni di segni che sottolineano il ritmo circolare della ripetizione.

Guardando con attenzione tute le opere di questo scultore non possiamo non constatare che in fondo tutto il lavoro di Tedeschi è legato al concetto di “pelle”, è un lungo racconto su questo organo, nello stesso tempo permeabile e impermeabile, superficiale e profonda, veritiera e ingannatrice, generatrice e dispensatrice di virus e di malattie. Quando vediamo le superfici bitorzolute, piagate, tempestate di zirconi, buchi foderati di cera nera, che fanno da finestra verso l’interno, non possiamo non constatare che anche la nostra epidermide si presenta come un tessuto complesso per struttura e funzioni, che diventa un importantissimo organo che contribuisce alla conservazione del corpo stesso, e ci assicura eccitazione, sensibilità erotica, in certi momenti dolore e tensione, ma fa comunicare con l’esterno i movimenti dei nostri organi . Di tutti gli organi di senso, la pelle— che lo studioso francese Didier Anzieu chiama “io-pelle”—è il più vitale. Essa rivela in gran parte all’esterno, come nel lavoro di Tedeschi, lo stato di salute interiore che difende, ed è perciò un riflesso veritiero della nostra buona salute psichica e organica. Anche per la scultura la superficie accidentata ,o perfetta, è rivelatrice di tensioni, di eros, seduzione tattile, di investimenti libidici o narcisistici, di nuove geografie del malessere, o viceversa. La pelle marmorea di questi lavori ci fa accedere a una “visione” concettuale delle cose e della loro realtà astratta, essa è una “interfaccia” che segna il limite con il fuori e lo mantiene ambiguo e in mutazione.

Ma non sempre è così, infatti esistono al cune sculture ultime, che ci presentano anche un’altra faccia del reale. Con maggiore o minore consapevolezza, tutti noi conferiamo un significato alle “cose”, ma solo gli artisti lo fanno metodicamente e secondo personali tecniche e percorsi di ricerca. Essi danno la propria voce e nuova attenzione alle cose mute. Ogni generazione è circondata da un particolare paesaggio di oggetti che definiscono un’epoca grazie ai materiali, alle forme, ai segni e all’aroma del tempo della loro nascita e delle loro modificazioni.

Il privilegiare la cosa rispetto al soggetto umano serve peraltro a mostrare il soggetto stesso nel suo rovescio, nel suo lato più nascosto e meno frequentato, investito di affetti, concetti e simboli, che gli artisti e la società vi proiettano. Gli oggetti diventano cose, distinguendosi dalle merci, in quanto semplici valori d’uso e di scambio, o espressione di “status symbol”. Gli oggetti incorporano i ricordi, le aspettative , i sentimenti e le passioni, le sofferenze e il desiderio di felicità. L’oggetto nel produrre assuefazione, toglie inoltre al bello il suo carattere auratico, di apparizione folgorante, commovente e rara. Nelle opere di Tedeschi—citiamo: “Things that happen” ,2009, (con pallina da pin pong ), “Clienti”,2010 ( paraffina, vetro, alluminio),

 troviamo che l’artista cerca di dare una risposta al desiderio di offrire alle cose una responsabilità culturale , stringendo con esse un’alleanza sensuale piuttosto che razionale, corporea piuttosto che spirituale, emotiva piuttosto che logica. Opere come: “ Thing that happen” 2009, in cui il piccolo bicchiere di cristallo sprofonda nella materia bianca del marmo che sembra formare delle onde di vibrazione, o il cubo di marmo “Effetto di causa”,2009 -- che fa affluire dal suo interno, dal suo cuore morbido, una materia dalla consistenza molle  come la manna, che poi si raccoglie in due bicchieri di vetro di diversa dimensione-- o la serie di piccoli barattoli di vetro in cui in formalina sono raccolti corpi lucidi, che possono indifferentemente porsi come corpi in mutazione, o organi mutilati, o anche altro, evidenziando quindi oggetti che possiedono una loro autonoma purezza formale e qualitativa, non separati però dal reale e dal mondo storico-simbolico, nel quale, l’oggetto facente parte dell’opera, si carica di senso e di vita. L’oggetto è quindi sottoposto da Tedeschi ad un denudamento che richiede, a mio avviso, di essere interpretato come atto finale di un processo purificatore per effetto del quale l’oggetto appare rinnovato allo sguardo che lo contempla.

Queste opere sono un esempio di come l’arte ,non solo possa mantenere le qualità secondarie degli oggetti, ma li traduca in cose che si trasformano in “vite silenziose”, quindi sempre vita, e inducono a prestare orecchio alla  “voce inascoltata della realtà”. Se le sculture di Tedeschi sono una “porta dischiusa sul mistero del vuoto”, la porta nella sua funzione di cerniera tra il dentro e il fuori, la porta dischiusa sul vuoto incarna la poetica dell’oggetto, che annulla ogni carattere rappresentativo dell’opera e assimila indistintamente lo sfondo alla figura, e quindi esplicita anche il carattere antiprospettico di questi lavori. Le opere di Tedeschi producono nello spettatore uno choc che rompe il legame abitudinario con il buon ordine del mondo.

La materia può sottrarsi alle leggi fisiche dell’esistenza e alla sua dissoluzione.

A questo pensiero complesso, fortemente referenziale, si contrappone un linguaggio artistico chiaro e lineare che gioca con le forme primarie e primeve e affonda le sue radici nell’arte concettuale.

 

LEONIDA KOVAČ

Valerio Tedeschi utilizza in modo tradizionale il più prezioso dei materiali della scultura, il marmo, non per creare un

monumento, una forma coerente e intellegibile, ma al contrario per creare un'immagine dell'informe. Sebbene le sue configurazioni schiumose di marmo potrebbero connotare l'eccessività della scultura barocca, il loro effetto performativo è in realtà l'opposto. Insistendo sulla palpabilità del materiale piuttosto che sull'illusione ottica, le "cose bianche" di Tedeschi non mirano a dare immagine ad un'idea di smaterializzazione, ma rendono simultaneamente visibile e palpabile quello che Yve-Alain Bois, seguendo Bataille, ha chiamato il materialismo di base - la prefigurazone dell'eterologia. L'eterologia come termine filosofico senza termini precedenti con i quali possa essere confuso sarebbe qualcosa che segnala un rifiuto: mentre il materialismo deve "escludere ogni idealismo",

"l'eterogeneità" designa da principio ciò che è escluso dall'idealismo. Il materialismo di base del quale l'informe è la più concreta manifestazione - scrive Bois- ha il compito di declass(ifi)care, cioè simultaneamente abbassare e liberare da tutte le prigioni ontologiche, da ogni "devoir être" (modello di ruolo). Questa liberazione da ogni "devoir être" è mostrata dai titoli stessi di certe opere di Tedeschi: "Difetto d'effetto". Tale rifiuto dell'effetto appropriato è diverso dal concetto minimalista di eliminazione della rappresentazione spaziale come "uno dei salienti e più discutibili resti dell'arte europea". Inoltre la dimensione tattile delle opere di Tedeschi, che sono in continua metamorfosi e irradiano il bianco, (utilizzo in maniera deliberata al parola cosa invece di oggetto) introduce gli strati che esistono al di sotto di una certa soglia di precezione nel campo del visibile. Le sue sculture e installazioni riconoscono an- che le nozioni di storia e memoria non come oggetti della rappresentazione, ma piuttosto con un senso di prefigurazione dell'eterologia.

Yve-Alain Bois, Rosalind E. Krauss, Formless: A User's Guide, Zone Books, New York, 1997, p.53

Maurizio Sciaccaluga

M-MOVIE

Negli ultimi decenni la ricerca contemporanea ha cambiato profondamente i propri indirizzi. Dove prima imperavano la sperimentazione del corpo, l’esplorazione e la sovversione degli spazi, la rappresentazione d’azioni e volontà, ora domina il popular. Certamente fashion e glamour, ma anche cronaca vera, noir, realismo spicciolo, horror e fantascienza. Certamente sfilate e attualità, ma anche fumetto, illustrazione, cinema, immaginario collettivo. Tale cambiamento, debitore anche (ma non solo) all’avvento nel mondo artistico dei nuovi media e delle nuove tecnologie, è stato recepito immediatamente da pittori e fotografi, che hanno aperto con entusiasmo tele e stampe alla nuove tematiche, mentre non ha trovato grandi interpreti in campo scultoreo. A parte qualche esponente della figurazione plastica, la maggior parte degli scultori è rimasta ai margini di tale rivoluzione, e non è riuscita a intervenire con forza e potenza nella querelle. Mentre i talenti dell’happening e dell’installazione inseguivano sogni sempre più cerebrali, influenzati da quella negazione in pectore del popular che è il poverismo, numerosissimi tra gli astrattisti rimanevano ancorati a discorsi annosi e fuori dal tempo, e non riuscivano a recidere quel cordone ombelicale che li legava ai grandi maestri della forma e della geometria affermatisi negli anni Sessanta e Settanta.

Numerosissimi tra gli astrattisti, ma non tutti. Valerio Tedeschi rappresenta l’eccezione a questa tendenza. Scultore classico in quanto a materiali (marmi e cere), astrattista in quanto a composizione (dominata da superfici morbide e tondeggianti alla Moore e alla Arp), in ogni sua opera si raffronta col pop più spinto, con quelle frequenze dell’immaginazione legate ai B-movie e alla letteratura pulp. Se il suo approccio all’opera non cambia di una virgola i modi tradizionali – scelta del ‘tocco’, sbozzatura, rifinitura, levigatura – il risultato finale è un pugno nello stomaco per la storia dell’arte, è quasi uno smacco a teorie e convinzioni su cui ha poggiato tutto il Novecento. Nelle sue mani il rapporto tra pieni e vuoti, la lotta tra materia e forma, il contrasto tra stasi e movimento lasciano il posto alla citazione volgare (nel senso prettamente etimologico del termine), alla passione popolare, a un racconto che fonda sullo stupore e sulla paura dello spettatore. I riferimenti innegabili alla grande stagione astratta del secolo scorso sono immancabilmente traditi da un continuo omaggio al cinema di Joe Dante, di Sam Raimi, addirittura di Ed Wood, e risultano spesso macchiati da una irrispettosa commistione con storyboard alla Stan Lee e alla Marvel Comics. Tedeschi, come da tradizione, lavora per ammorbidire il marmo, per renderlo fluido e vitale, per dargli quel soffio di vita che lo trasformi da pesante pietra in materia animata, ma tutto questo gli serve – infine – per chiamare in causa le pellicole di fantascienza piuttosto che il Cinquecento, le atmosfere degli albi a fumetto piuttosto che i libri sulla scultura del passato remoto e prossimo. Non gli interessa la valorizzazione della massa, non ama e non studia la disposizione delle linee negli spazi. preferisce la suggestione di emozioni forti, immediate, dirette, disponibili per tutti e non solo per gli iniziati. Studia l’equilibrio dei pesi, ma solo per renderlo paradossale, magari con interventi mirati a creare angoscia e capaci di evocare una presenza sconosciuta e aliena. Con le sue opere l’artista, in una sorta di riproduzione in negativo, dunque bianca invece che nera, chiama direttamente in causa l’indimenticabile Blob, si rifà all’aspetto gelatinoso, morbido e inquietante della sostanza informe più famosa del cinema. Ed ecco svelate le due parole chiave della ricerca di Tedeschi: morbido e informe. Ovvero,  esattamente il contrario di ciò che si pensa possa essere il marmo. Eppure l’autore opera proprio affinché il lavoro sembri ancora alla ricerca di un equilibrio stabile, appaia come mosso da una forza interiore e squassante che lo spinge a modificarsi, a mutare. Dura e fissa, la pietra si presenta come fosse malleabile, capace di scattare, atta ad assumere nuove forme (ma senza mai chiudersi e terminare in nessuna). Nella ricerca di Tedeschi il blocco di partenza non rimane mai, non lascia segni, non esiste. Non può nemmeno essere immaginato, perché la forma è presentata sul nascere, mentre riceve la spinta che l’induce ad agglomerarsi, a tendersi, a espandersi. Lo spettatore non giudica semplicemente il risultato di un’elaborazione plastica ma, come in una proiezione cinematografica, s’immedesima coi protagonisti della vicenda, soffre e teme per paura di ciò che la massa di marmo potrebbe diventare. Invece che intervenire sulla superfice della materia, invece che cercare tra le venature il disegno di un presenza – come avviene nella gran parte delle sculture – l’artista si concentra su quei segni, quelle tensioni e quelle pulsioni che precedono e accompagnano la nascita di una forma definita e compiuta. La pietra non racconta le immagini della vita, ma finisce per accogliere la vita stessa dentro di sé. non rappresenta la vita ma, piuttosto, si presenta ingravidata di una nuova, futura esistenza. Le bolle che forzano le superfici liscie e piatte, le escrescenze piramidali che fan lievitare la pietra, i tentacoli che muovono e interrompono la quiete di strutture prima immobili sono i segnali inequivocabili di qualcosa che sopravvive e si nutre dentro il marmo, e che sta iniziando a lottare per uscire. Non si tratta di una gestazione indolore (e non potrebbe essere altrimenti vista l’anormalità della situazione), e la reminiscenza immediata di situazioni come quelle di La cosa da un altro mondo di Howard Hawks o di L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel spinge gli spettatori a temere e preoccuparsi. Se la materia racconta l’uomo ne è evidentemente assoggettata, ma se si riproduce e si muove di un apparente moto proprio allora significa che non ne rispetta l’autorità, che è pronta a ribellarsi, che sta per sconvolgere quell’ordine su cui l’uomo si basa. Nelle sculture di Tedeschi non c’è il mondo che conosciamo ma un’alternativa ad esso, concepita e già sulla via di prendere forma. Nelle opere dell’artista c’è esattamente quell’inquietante e magico universo dello Sci-Fi, quell’immaginazione sfrenata che induce a pensare, in continuazione, a situazioni diverse e paradossali, a scenari stranieri e sconosciuti. Se nel linguaggio del cinema tutto questo è, anche, B-movies, in quello di Tedeschi è M-movies. Ovvero, Marble-movies, fantascienza scritta e narrata nel marmo.

Trucco di tutto il lavoro dello scultore piemontese è cancellarsi, negarsi come presenza alla base della modificazione della materia. Tutto deve sembrare avvenuto spontaneamente, per chissà quale miracolo della natura, e – come nei film di genere che si rispettino – senza una causa apparente ovvia e scontata. È la pietra che sta prendendo vita, che si sta muovendo, che sta vomitando fuori i suoi umori e le sue passioni, e l’arte non centra nulla. L’arte osserva, in attesa che la materia partorisca e nasca, finalmente, una forma diversa da tutte quelle concepite fino ad ora. 

 

Marco Rosci

In questo clima cosiddetto postmoderno, in cui i giovani artisti sembrano privi di infanzia nell’avventura creativa, già nati adulti, espertissimi, coltissimi nello sperimentare e svariare in ogni forma e contraddizione e alternativa del secolo, rimane solo, credo, un territorio dell’arte nel cui ambito è possibile ancora scoprire momenti ed esempi - ben lontani, s’intende, dalla realtà e dal mito della spontaneità ingenua - di “ invenzione formale “ non egemonizzata da riferimenti culturali, legata invece a materie ed esperienze famigliari e locali: ed è quello delle tecniche scultoree tradizionali del legno e della pietra. Ho usato volutamente il termine di tradizione solo per quanto riguarda la tecnica, il “fare”, il dibattito concreto e vitale fra autore e materia. E’ privilegio dell’ ”invenzione” l’ancorare e il certificare la consistenza dell’autore e dell’opera nella realtà creativa dell’oggi.

Tedeschi figlio di un artigiano del legno e inizialmente pittore fra espressionista e surreale e poi sperimentatore di tecniche e materie miste fra seconda e terza dimensione nel filone neodadaista, si fà scultore in Sicilia. E subito lega alla materia locale del tufo e alla sua “calda” sostanza di materia e di superficie, accentuata da una colorazione ottenuta, con una scelta ben significativa, attraverso la resina di succhi vegetali, dall’olivo al polline dei fiori, l’evocazione espressionistica di miti mediterranei, di frammenti cataclismici per incastri e accumuli della civiltà scultorea arcaica. La strutturazione cubisteggiante dei ritmi tridimensionali è animata e stravolta, ai limiti dell’ “art brut”, dalla metamorfosi della mostruosità umana-animale in organismo naturale.

Il ritorno al nord all’ombra delle cave ossolane e del Verbano del Duomo di Milano - e il rapido apprendistato del marmo a Carrara segnano la svolta fondamentale e la nascita della  freschissima invenzione formale dell’ultimo anno, 1988-89, a cui è fondamentalmente dedicata la mostra, con una essenziale e necessaria premessa dell’opera siciliana in tufo. Per questo ho ritenuto di affiancare, di quell’opera, al “ Trofeo “ arcaico-espressionista, la ” Forma siciliana “, in cui il corpo mostruoso trasmuta in noduli vegetali, e il paragone didascalico fra la profilatura monosuperficiale in tufo di “Duale “ e la più ritmata e strutturata visione bisuperficiale dopo l’apprendistato nel marmo, in cui acquistano  più raffinato valore luministico i rapporti fra il grezzo e i piani politi di ritmo grafico. L’esperienza espressiva siciliana rimane il sottofondo della straordinaria, morbidissima raffinatezza di modellazione luministica del marmo: un sottofondo organico, vitalistico sotteso all’illusionismo degli “Ossi” degli “Innesti”.

E’ proprio questa organicità a conferire una tattile vitalità magica, surreale, una sostanza e densità scultorea non revivalistica al primo livello di apparenza neo-novecentesca, wildtiana. Ed è innanzitutto l’organicità di fondo nascente dalla volontà e dalla capacità di Tedeschi di trarre ogni possibilità di vibrazione luministica e cromatica dall’intimo stesso della specifica materia minerale la cui durezza egli trasmuta in fluenza, appunto “organica “.

Il rapporto fra l’osso in bianco statuario e la “stoffa” in paonazzo attinge addirittura a perizie illusionistiche barocche. La rapidissima evoluzione negli “Innesti “ introduce più esplicitamente, sulla perizia vibratile e illusionistica, l’inedito discorso del rapporto fra materiale inorganico vitalizzato dalla modellazione e vera e propria organicità di natura, al punto che mi azzarderei a parlare di scultura “ecologica “.

Sulla politezza del bianco statuario o ordinario ( che in un caso dà forma all’assoluto simbolico del tronco di colonna ) si innestano materialmente e serpeggiano e si intrecciano i virgulti in marmo di Candoglia : e va ben al di là del puro gioco materico il fatto che alcuni di questi virgulti rechino al sommo o nel corpo impasti e gocce della cera usata per gli innesti vegetali.

 

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